La Cina che avanza

Geopolitica. Ultimo capitolo della rivalità col
Giappone di Carlo Filippini, ordinario di
economia politica alla Bocconi

Ottocento anni fa la Cina cercò di consolidare la sua influenza sul Giappone; chiese alla nazione vicina di pagare un tributo e di riconoscere l’autorità imperiale: a quei tempi era il modo di manifestare l’egemonia politica ed economica. Ma un tifone – vento divino, kamikaze – disperse la sua flotta. Trecento anni dopo il Giappone, appena riunificato, tentò a sua volta di conquistare la Cina; anche questo tentativo fallì per una ragione molto simile: il mancato controllo del mare. Le due grandi potenze dell’Asia orientale hanno sempre avuto rapporti profondi ma molto competitivi: la Cina è stata la sorgente della cultura, della filosofia, della religione (gli ideogrammi, le arti, il confucianesimo, il buddismo). Il Giappone però non le ha mai importate e copiate, ma le ha sempre adattate alle proprie esigenze e mentalità.

Pensiamo agli ideogrammi ‘riscritti’ e diventati il proprio modo di scrittura; in altre nazioni tributarie della Cina essi furono lasciati invariati e usati dalle classi colte in parallelo alla lingua popolare. Dalla fine dell’Ottocento i ruoli si sono invertiti: il Giappone ha fuso tecniche occidentali e spirito giapponese diventando la seconda potenza economica al mondo; la rapida crescita ha quasi cancellato il senso di dipendenza culturale. Negli ultimi anni la Cina sta impetuosamente riguadagnando la posizione di potenza egemone occupata per secoli: allora in Asia, domani probabilmente nel mondo. Molti sono gli aspetti della crescente influenza cinese: lo studio e la rivalutazione di Confucio, di Mao, di un sistema di valori del socialismo con caratteristiche cinesi sottolineano la crescente fiducia nella propria identità culturale che si accompagna al progressivo allontanamento dalle ideologie importate dall’Occidente: quella politica (il marxismo-leninismo) e quella economica (il capitalismo o libero mercato).

Il modello democratico occidentale (un po’ appannato a causa della crisi in atto) è sfidato da quello ‘sviluppista’ orientale, di derivazione confuciana, dove i confini tra stato e mercato, tra pubblico e privato sono sfumati e incerti: il potere deve promuovere il benessere dei sudditi, questi a loro volta devono prestare obbedienza all’autorità.
Concreta espressione di questi sentimenti è l’apertura di centinaia di Istituti Confucio in tutto il mondo con lo scopo di diffondere la lingua cinese e di promuovere la cooperazione culturale, educativa ed economica tra la Cina e le comunità estere; questi istituti sono generosamente finanziati dalle autorità cinesi.

All’estremo opposto vi è il rafforzamento della marina militare e la creazione della ‘collana di perle’, una serie di installazioni di vario genere dalla Cina al Canale di Suez, che ha l’obiettivo di rendere più sicuri i rifornimenti di petrolio e altre materie prime, senza i quali la Cina vedrebbe soffocata la propria crescita; nel 2009 più di metà del petrolio consumato era importato.
Paesi e addirittura continenti considerati fino a pochi anni fa ‘riserva di caccia’ delle potenze occidentali, l’Africa (ma anche l’America del Sud), vedono una presenza cinese sempre più rilevante e diffusa: i prodotti cinesi di livello tecnologico medio-basso sembrano più adatti ai bisogni dei consumatori africani; gli investimenti cinesi non sono accompagnati da vincoli relativi all’ambiente o alle condizioni di lavoro (come invece lo sono quelli delle organizzazioni internazionali o delle nazioni occidentali).
Altri aspetti della crescente leadership cinese sono più noti e certamente più importanti: l’ammontare delle riserve valutarie, la dimensione del mercato, la capacità di esportare. In un prossimo futuro nella stanza dei bottoni al Fondo monetario internazionale potrebbe entrare un cinese. Naturalmente oggi il mondo è multipolare, vi sono parecchi giocatori strategici. Non è pensabile una Cina al centro con una periferia di stati tributari, almeno non per qualche anno, più avanti…


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